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(J House, designed by Jun Aoki)
Jun ha occhi piccoli e vivaci. Racconta d’inverni giapponesi limpidi e luminosi, e di estati sempre umide e nebbiose. Gli uni con i colori delle altre, e le altre, a disegnarle, che ricordano altre storie, altri luoghi. Questa terra di lava e tremori, tra nobili fatiche e pratica della negazione, ha il suo momento più luminoso tra l’alba e l’aurora. Qui l’assenza è il picco alto dell’essere, la privazione è tutto il mondo dentro, senza averne bisogno. Oggetti non identificati, architettura senza vocali, il soffio di una katana che scivola nel vento. Jun conosce la forza del silenzio, e possiede lo stesso senso ambiguo, senza opposti né antitesi. Lui sfoca, illude. Cela griglie, moduli ed elementi costitutivi e s’interessa esclusivamente ad un finale che non regala certezze. Come nel Mulholland di David Lynch o nel suo Aomori Museum of Art, i rapporti di forza rimangono vaghi, la percezione sospesa. È maestro della luce, natura e artificio scompaiono entro emozioni da costruire. Tra superfici che traslano, le sue pelli rinfacciano tonalità e ambivalenze, arretrano e creano spessore, riflettono e trasudano. Dai tanti Louis Vuitton disseminati per l’Asia agli anelli narcisi della White Chapel, Jun ha sperimentato sui materiali e trasmesse suggestioni, nel formare architettura.
Il corso ha sorgenti e foci innumerevoli per chi come lui ritiene ogni esperienza, ogni istante racchiuso inconsapevolmente in una sostenibile fonte di vita creata. Jun non vede distinzione tra arte e architettura, se non nella funzione. Si cuce addosso l’appellativo di archista / artitetto e realizza la sua missione in ogni forma e materia. Figlie dell’opulenta disponibilità economica dei grandi marchi dell’alta moda o del portafoglio sottile di una giovane coppia che sogna un nido proprio, le sue architetture possono fondere ricercatezze o puntare a soluzioni flessibilmente economiche. Un piede in volo e l’altro sempre ben piantato a terra, Jun struttura la J House con una intelaiatura lignea. Conferma l’abilità dell’artista che crea oltre i limiti della materia e gioca col concetto del quadrato nel cuore di Tokyo. A Sangenjaya, su un lotto pentagonale irregolare di 290m2, Jun Aoki concepisce un’abitazione unifamiliare con annesso atelier per una coppia titolare di una galleria d’arte. Riveste lo scheletro fibroso con materiali neutri, comuni. Pavimentazione in quercia bianca per camera da letto e zona giorno, cemento a faccia vista per l’atelier, moquette per la sala riunioni, piastrelle per lo studio. Cartongesso per coprire di bianco le superfici verticali e i controsoffitti solcati di neon.
Jun si stringe nel budget, mira al finale e disegna una sequenza di spazi con un totale volumetrico a forma di J o di revolver. Per grilletto, l’ampio ingresso principale sovrastato dal balcone e, per carrello, il piccolo terrazzo panoramico di verde sovrastante lo studio grigliato di quadrati bianchi. L’asse del vano scala distingue la canna, con atelier a primo livello e zona notte al secondo, dal manico in cui gli ambienti riunione del piano d’entrata sottostanno all’estesa zona giorno. Come in una pellicola di film, ogni ambiente è una scena individuale, una cellula, la cui successione progressiva crea ritmo ed emozioni. In J House, la combinazione degli spazi è incorniciata solo da aperture quadrate. Da passaggi e finestre, da porte e da nicchie di neon, tutto ciò che è oltre la soglia fisica del proprio spazio viene cucito addosso entro cornici quadrilatere. Così la scena seguente è già presente, e i limiti di una figura geometrica si sciolgono nelle espressioni percettive al quadrato. Le 4 dimensioni uguali restituiscono lo stesso valore a paesaggi interni ed esterni, al piccolo cielo racchiuso in una stanza e all’intero arcobaleno di rosso terra, verde giardino o grigio città, che sta al di là.